Se mi chiedono se Il Capo dei capi o L’Ultimo Padrino influenzano i giovani siciliani, io rispondo con un secco no. No, perché non li influenzano come non li influenzano Il Padrino o Tekken o qualunque altra “esaltazione” della violenza. E il fatto che i personaggi siano reali non cambia niente. Più o meno. Ritengo che l’influenza dei Riina e Provenzano/personaggi delle fiction debba per forza basarsi su un humus già “negativo”, per così dire. Non venite a raccontarmi che un ragazzino di Via Libertà o Viale Strasburgo che frequenta il liceo Meli (giusto per semplificare con qualche luogo comune la Palermo Bene), dopo avere visto le fiction incriminate, va a dedicarsi al furto di motorini o cerca di entrare nella mafia. O comunque attua un comportamento anti sociale come diretta conseguenza. Se gli è stato spiegato da coloro che veramente formano una coscienza (non solo civica) cosa è corretto e cosa no, e cosa significa la parola mafia, non si farà influenzare. Ovviamente escludiamo dal discorso soggetti psicolabili o simili. E’ chiaro invece che il tredicenne che proviene da una famiglia disagiata, dove non la mafia, ma anche solo la mentalità mafiosa, non vengono condannate, anzi sono incoraggiate, potrebbe trovare la sublimazione dell’eroe nello schermo della Tv. Ma il politicante di quartiere o lo “zio” del circondario non hanno lo stesso fascino? Anzi, quel fascino non è più concreto, diretto, e quindi efficace? Ovviamente il risultato non è comunque matematico. I bambini sono meno stupidi di quanto vogliono farci credere. Anche i più ignoranti. E le teorie della comunicazione si sono evolute negli ultimi decenni, dalla Two step flow of communication in poi. Ma credo che questo sia risaputo. Invece non è risaputo, forse, che in Sicilia chi si raduna a Ballarò per vedere il Capo dei Capi tra festoni e applausi (sempre che sia davvero successo), non ha bisogno delle fiction per essere un potenziale mafioso – a più gradi. Ci basta “l’istituzione mafia” a plasmare gli animi, con eroi in carne ed ossa, nel quotidiano. Il parente che fa il dipendente regionale su raccomandazione, l’amico che ha comprato lo stereo a due soldi perché rubato.
E’ chiaro che c’è una dose di responsabilità nella rappresentazione dei personaggi. Sia per una questione per così dire morale (appunto di responsabilità) dell’evitare le apologie, più per onestà intellettuale dello scrittore, che per il timore reale di qualche emulazione. Ma mi rendo conto che quando si scrive di personaggi “cattivi” o comunque negativi ci si lascia prendere facilmente la mano. Dei fumetti che sto scrivendo in questi mesi, tre su cinque hanno per protagonista un “cattivo”. E ho visto come sia divertente, intrigante e anche difficoltoso dare una motivazione e una caratterizzazione al “cattivo” che approfondisca realisticamente la psicologia più di un semplice “è buono e basta” o “è cattivo perché il papà lo picchiava”. Ci si lascia prendere la mano, dicevo, dalla fascinazione del male, quasi morbosa, che è la stessa che spinge sei milioni di spettatori a seguire le gesta di un assassino come Provenzano o Michael Corleone. Per quel dovere morale di cui sopra, ma anche per riportarci con i piedi per terra e svegliarci da quella fascinazione, bisogna periodicamente ricordare la malvagità del villain. Nel Padrino parte II, quando abbiamo empatizzato fin troppo con il protagonista, Coppola e Puzo ci mostrano come sia freddo e inumano con la sua stessa famiglia, addirittura spietato. Il Dottor Destino, Magneto o il Joker, se in certe loro uscite risultano onorabili, ammirevoli o meritevoli di una certa pietas, presto ci ricordano che sono dei mostri disumani, degni contraltari del bene assoluto in cui è più facile identificarsi per una questione “morale” che va oltre la mera fascinazione. Nei Soprano, serial che ho amato e seguito dall’inizio da un anno a questa parte, pur mostrandoci il lato simpatico, piacione del protagonista, ogni tanto ci viene scaraventata addosso una violenza cruda e quasi fastidiosa che ci distacca dalla contemplazione del male, dal “tifare per i cattivi”. La stessa violenza “repellente” che è necessaria per motivi di etica quando si parla di Provenzano e Riina. “Quello che la fiction, la narrativa, deve fare è entrare nelle cose, mostrare i meccanismi e le contraddizioni. Quello che dovrebbe starci attorno è una corretta informazione”, ha scritto Carlo Lucarelli ha proposito de Il Capo dei Capi. Concordo: educare alla legalità non spetta alla fiction, perché è una causa persa in partenza, specie se lo scopo della produzione è tutt’altro che divulgativo. Meglio le docu-fiction, meglio gli approfondimenti, meglio la lettura dei giornali e dei libri. E invece di leggere i Promessi Sposi o Dante Alighieri (che bisogna conoscere, per carità), i nostri professori d’Italiano facciano leggere Il giorno della Civetta o anche I Complici. A costo di risultare un vegliardo, potrebbero restare più impressi della parabola di Riina in Technicolor, anche a chi di Riina ha un bel ricordo in famiglia.
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